A ruota libera

Abbiamo perso il grande Nino Manfredi

Abbiamo perso il grande Nino Manfredi

27/03/2008



L’ultimo, solido baluardo del Cinema italiano è scomparso dopo i postumi di un ictus che lo aveva colpito nel luglio scorso. Per porgergli l’ultimo, doveroso tributo, ripercorriamo, con un pezzo tratto da ”Rupubblica.it”, il suo iter artistico:

”Albe’, lasciami un posto in Paradiso, così continuiamo a scherza’, sennò m’annoio...”. Così Nino Manfredi aveva salutato Alberto Sordi nel giorno della sua scomparsa. ”Ora sono rimasto solo io”, aveva detto, quando se n’era andato l’ultimo compagno con il quale aveva condiviso, seppure lungo strade diverse, il viaggio che aveva reso grande il cinema italiano. Una strada lunga, per Manfredi, percorsa fino a La luz prodigiosa, il film di Miguel Hermoso che gli ha fatto raccogliere l’ultimo, appassionato abbraccio dal pubblico della Mostra del cinema di Venezia, a settembre del 2003. Che lo ha consacrato anche, e ancora una volta, con il Premio Bianchi consegnato nella mani della moglie Erminia. Il cinema per tutta la vita. Ma non l’unico banco di prova per quella vena comica e genuina, alimentata dalle origini ”burine” mai dimenticate, anzi, valorizzate, quelle radici ciociare delle quali aveva conservato la schiettezza rustica, l’approccio disincantato con le persone e le cose, la testardaggine. Un attore squisitamente italiano, premiato dalla stima del cinema internazionale: nell’estate 2003, al Festival di Mosca, La fine di un mistero, in cui Manfredi interpreta il poeta spagnolo Federico Garcia Lorca, era stato premiato come miglior film.

Saturnino Manfredi nasce il 22 marzo del 1921 a Castro dei Volsci, in provincia di Frosinone. Dopo una laurea in giurisprudenza (presa, diceva, ”solo per fare contenti mamma e papà”) passa direttamente all’Accademia d’arte drammatica di Roma. Poi, alla metà degli anni Quaranta, tenta la fortuna sul palcoscenico del Piccolo Teatro di Milano con Shakespeare e Pirandello. Ma anche nei teatri romani, e con Eduardo, ed Orazio Costa. Poi, l’incontro con il teatro di rivista. E il cinema.

La popolarità arriva alla fine degli anni Cinquanta, grazie ad una serie di film in cui interpreta malizie e ingenuità dell’”italiano del boom”: Tempo di villeggiatura (1956), Susanna tutta panna (1957), Guardia, ladro e cameriera (1958). Intanto, nel 1955, incontra la donna che gli resterà accanto per tutta la vita: Erminia Ferrari, bellissima indossatrice. Nascono tre figli, Roberta, Luca e Giovanna.

Risale allo stesso periodo l’approdo in televisione, prima con lo sceneggiato L’alfiere (1956), diretto da Anton Giulio Majano, poi con Un trapezio per Lisistrata (1958), al fianco di Delia Scala con la quale conduce, e insieme anche a Paolo Panelli, l’edizione del 1960 di Canzonissima, dove conquista il pubblico con la celebre macchietta del ”barista di Ceccano” e il tormentone ”Fusse che fusse la vorta bbona...”. Pochi anni dopo, è il 1963, il trionfo in teatro, con Rugantino di Garinei e Giovannini.

I riconoscimenti arrivano però con il cinema, come il Nastro d’argento ottenuto per Questa volta parliamo di uomini (1956), di Lina Wertmuller, in cui Manfredi interpreta quattro diversi ruoli. Restano memorabili alcuni suoi personaggi, dall’innocente perseguitato in Girolimoni, il mostro di Roma (1972) all’emigrante italiano in Svizzera di Pane e cioccolata (1974), dal ”piede amaro” di L’audace colpo dei soliti ignoti (1959), al barbiere innamorato Marino Balestrini di Straziami, ma di baci saziami (1966) a Titino, l’editore borghese che sceglie la libertà e diventa capo di una tribù in Angola, in Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?

Un successo anche quando tenta con la regia, com’è il caso di Per grazia ricevuta (1970), premiato a Cannes, del quale è anche protagonista. Seguono, ancora, C’eravamo tanto amati (1974), di Ettore Scola, e Café Express (1980), di Nanni Loy, altro Nastro d’argento. E un altro ancora, nel 1977, con In nome del Papa Re, diretto da Luigi Magni, regista,
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