08/07/2010
di Chiara Ursino - La malattia mentale è, forse, una delle cause di disagio sociale che più preoccupa perché ritenuta sinonimo di pericolosità e imprevedibilità. È durante l’Illuminismo che, la psichiatria, come branca della medicina, comincia ad emergere. In quell’epoca, Philippe Pinel (1793) “spezzò le catene agli alienati” con l’intento di liberare il folle dalla sua condizione di dannato, consacrandolo come malato e nel XVIII secolo furono concepiti i primi asili per gli alienati. Da queste strutture derivano i manicomi od ospedali psichiatrici, che anche in Italia sono stati rifugio/prigione per i malati durante gran parte del XX secolo. La malattia mentale era considerata sostanzialmente inguaribile, progressiva ed incomprensibile. Questo giustificava la segregazione dei pazienti per la salvaguardia delle “persone civili” e del decoro. Gli strumenti terapeutici erano lasciati alla fantasia più sfrenata: docce ghiacciate, diete sbilanciate, isolamento e contenzione fisica sono solo alcune delle pratiche cui venivano sottoposti i pazienti. Nel nostro Paese, le esperienze di decenni, chiedono categoricamente una revisione della normativa che disciplina l’assistenza di questa patologia nelle sue diverse manifestazioni ed espressioni. Rispetto alle legge n° 180 (1978) che impose la chiusura in prospettiva degli ospedali psichiatrici giudiziari, a livello dottrinale ed anche a livello di opinione pubblica, oggi sussiste, dopo la chiusura degli ospedali psichiatrici civili, un ampio consenso. Si tratta peraltro di un consenso più apparente che reale, perché la richiesta di chiusura di tali istituti non si accompagna, generalmente, all’impegno di affrontare seriamente il problema del "che fare" di fronte a persone affette da disturbi psichici di cui nessuno si vuole occupare. I disturbi psichici, nella nostra cultura, sono soggetti a uno “stigma” maggiore. Il termine "stigma" si riferisce ad un etichetta di pietà , vergogna e rifiuto attribuita indistintamente ad un malato psichiatrico. Ciò porta al graduale rifiuto, allontanamento ed esclusione della persona mediante l’assunzione di comportamenti discriminanti nei confronti della stessa; questo stato di solitudine compromette ulteriormente le abilità dell’individuo e le sue capacità di recupero. Lo stigma che si accompagna alla malattia mentale crea, infatti, un circolo vizioso di alienazione e discriminazione per la persona malata, per la sua famiglia e tutto l’ambiente ad essi circostante, diventando la fonte principale di un grave isolamento sociale; comportamenti di abuso di alcool e di sostanze, nonché di fenomeni di protratta marginalizzazione. I pazienti, quindi, non soffrono solo per il disturbo mentale, ma anche per le conseguenze della stigmatizzazione della loro sofferenza e per il danno alla loro identità .Quando si parla di disabilità psichiatrica non è sufficiente prendere in esame la disabilità del soggetto, ma è indispensabile considerare la risposta dell’ambiente alla disabilità stessa del soggetto. La disabilità psichiatrica può essere intesa come un disturbo nell’espletamento di gravi ruoli sociali che ci si aspetta vengano svolti da un soggetto in un determinato contesto. Occuparsi di psichiatria oggi, in Italia, ma anche nel resto del mondo, sembra quasi un’azione superflua, un lusso sfrenato. Occuparsi di psichiatria vuol dire avere un rapporto col prossimo che ti chiede aiuto, avendoti individuato come persona competente. Tale richiesta mette in condizione lo psichiatra- educatore di rendersi sempre conto che si ha a che fare con persone normali, che reagiscono in modo poco producente, perché hanno una storia particolare. Questa storia, se ci prendiamo la briga di affrontarla dalla parte dell’interessato, ci fa capire che noi, nei loro panni, con la loro storia, ci comporteremmo come loro; probabilmente, peggio di loro. Sono storie in cui prevale sempre la paura, la sfiducia. Sono storie dalle quali ci si rende conto che non è mai comparso un atteggiamento fiducioso nei loro confronti. Nei riguardi della persona disabile mentale oggi, molto probabilmente, facciamo ciò che facevano i Romani con gli schiavi; erano schiavi perché diversi, appartenenti ad un’altra razza, ad un ceto sociale diverso. L’ educatore ha un ruolo centrale in ambito psichiatrico. Egli, come professionista nell’educazione degli adulti con disagio mentale, è un facilitatore dell’apprendimento; oltre a conoscere a fondo i processi di apprendimento ha la capacità di aiutare la persona a impegnarsi in maniera proattiva nella diagnosi dei propri bisogni in continua trasformazione. Questo operatore specializzato, per potersi muovere in tale ambito, deve essere supportato dall’intera equipe. Educare, dal latino “e-ducere”, significa letteralmente condurre fuori. L’educazione rappresenta, quindi, il processo attraverso il quale il soggetto fa emergere le proprie potenzialità, costruendo se stesso, conquistando la propria libertà e assumendosi la responsabilità del percorso di crescita scelto. Negli ultimi anni si considera, inoltre, l’educazione come un processo che dura tutta la vita e che non si conclude, come si pensava prima, raggiunto il traguardo dell’età adulta. Tale percorso viene definito come “percorso continuo attraverso il quale ogni essere umano aumenta ed adatta le proprie conoscenze ed abilità, le proprie facoltà di giudizio e le proprie capacità di azione. Essa deve consentire all’individuo di diventare consapevole di se stesso e del proprio ambiente, e di svolgere un ruolo sociale nel lavoro e nella società in genere”. L’Educatore è colui che interviene su problematiche legate al disagio psicologico e sociale e alla malattia fisica, per cui diviene il portavoce del bisogno di comprensione e dell’esigenza di sostegno di un’identità che non corrisponde a valori normativizzati, in quanto inserito dalla società in una posizione di deviante. L’intervento dell’Educatore, però, non è limitato alle situazioni devianti dalle condizioni considerate normali per il sistema, ma si estende all’ambiente quotidiano di vita del soggetto. Quest’operatore agisce sul fattore saliente, ovvero su ciò che appare preponderante, critico, evidente sia a livello degli ostacoli che si frappongono al cambiamento, sia sui motivi facilitanti l’innovazione. Lo scopo dell’agire educativo è un “cambiamento modale” che coinvolge la persona intera in ogni aspetto della sua esistenza. L’educatoresi trova, spesso, a svolgere la propria azione all’interno di gruppi; per questo motivo è fondamentale che favorisca la collaborazione spontanea e attiva dei soggetti, amplii la loro capacità di espressione al loro interno, imparando ad usare anche la gestualità come modalità comunicativa e infine, sappia limare le regole patologiche di cui il gruppo si è strutturato. Un’occasione per realizzare questi obiettivi è rappresentata dalle risorse a disposizione sul territorio: risorse da individuare e selezionare sulla base dei bisogni degli utenti. Il compito fondamentale di questo operatore risulta, dunque, quello di trasformare, in base al proprio sapere professionale e alla propria competenza e capacità di riflessione, l’esperienza educativa, nata dalla spontaneità della vita quotidiana, in una esperienza conscia, finalizzata e programmata. In conclusione, i soggetti affetti da malattia mentale possono essere riabilitati e quindi garantire loro una normale vita, come tutti gli altri. La riabilitazione risponde, dunque, all’obiettivo proprio della Psichiatria, in quanto branca della medicina che ha per oggetto la patologia della “vita di relazione”, a quel livello di essa che assicura l’autonomia e l’adattamento dell’uomo nelle condizioni della sua esistenza.