18/01/2012
- di Chiara Ursino - La normativa relativa all’educatore professionale è regolamentata dal Decreto Ministeriale 8 ottobre 1998, n. 520. Questo professionista progetta interventi educativi mirati al recupero e allo sviluppo delle potenzialità dei soggetti in difficoltà; contribuisce a promuovere e organizzare strutture e risorse sociali e sanitarie; programma, organizza, gestisce e verifica le attività professionali di suddette risorse all’interno di servizi socio-sanitari e delle strutture riabilitative in modo coordinato e integrato con altre figure professionali presenti nelle strutture. L’educatore professionale opera in stretta relazione con l’utente, condividendone sia la quotidianità, che i momenti importanti. Ciò gli permette di condurre un’osservazione molto approfondita, di formulare obiettivi educativi precisi e realizzare interventi incisivi. Per intraprendere la professione di educatore professionale è necessario conseguire la laurea triennale interfacoltà in Educazione professionale, che abilita alla professione nei settori sanitario e sociosanitario. Per il conseguimento della suddetta laurea è necessario, accanto la formazione teorica, svolgere per tutta la durata del corso un tirocinio presso le tante strutture deputate all’inserimento di tale figura. Ciò permette, in fase di formazione, alla persona che intraprendere tale percorso, di mettere in atto tutto quello che viene appreso in ambito universitario e quindi in qualche modo, di confrontarsi con le diverse problematiche che si devono fronteggiare quotidianamente, che non sono per nulla standardizzate; questo significa che ogni giorno si ha la possibilità concreta di confrontarsi e di mettersi in discussione con gli altri componenti d’equipe. In questo articolo mi piace condividere con voi lettori quella che è stata la mia esperienza, per molteplici aspetti davvero straordinaria. Intanto inizio col dirvi che, per trovare una struttura che potesse rispondere in maniera adeguata alle mie esigenze, è stato davvero complicato….mi spiego meglio: era necessario trovare una struttura che non presentasse alcuna barriera architettonica in maniera tale da muovermi con facilita con la mia compagna di vita e in maniera tempestiva consentendomi di svolgere a pieno titolo la mansione di tirocinante. Trovata la struttura, per me era arrivato il momento di affrontare al meglio quello che poteva rappresentare e che ha rappresentato il più grosso ostacolo da superare. Immaginate un po’ quale potesse essere? Ancora una volta la mia disabilità fisica… Non scorderò mai il giorno in cui mi presentai in “servizio”, risuonano ancora vive dentro me queste testuali parole, pronunciate da una mia collega: ”sei venuta per prendere il mio posto?!”. Mi sforzai di risponderle con educazione, perché in quell’istante compresi che, da quella mattina, si apriva per me una avventura; sapevo che era solo l’inizio di una serie di battute poco piacevoli. Altro episodio molto scottante per me fu quando una mattina entrando il responsabile della struttura mi disse: Ma lei fa cosi tanta strada per raggiungere il centro? Non c’è ne un altro vicino al suo paese? Ma chi la accompagna?”. Con questa affermazione compresi che il responsabile mi aveva scambiato per una utente. Allora mi ritrovai in una situazione un po’ imbarazzante e con molta ironia risposi: ”Lei credo non sappia che io sono qui come tirocinante, ma non si preoccupi, non indosso il camice per cui non poteva comprenderlo”. Un’altra mattina chiamai al telefono un’infermiera per dirle che c’era un ragazzo che stava male, quindi chiesi a lei indicazioni sul come comportarmi. Poco dopo mi raggiunse e, nel vedermi senza camice e comodamente seduta sulla mia amata sedia, cominciò ad accarezzarmi il volto e in quel momento decise di raccontarmi la favola di cappuccetto rosso, dimenticandosi cosi del motivo principale per cui era stata chiamata. Io rimasi al gioco per un po’ fino a quando, decisi di volgere il mio sguardo verso l’orologio e, a quel punto decisi di rendere partecipi tutti di che ora fosse. A quel punto la signora in questione esclamò: “ah… ma allora non è scema”. Di episodi simili a questi, ce ne sarebbero parecchi, ne ho riportati solo alcuni. Con orgoglio posso dirvi, però, che le mie giornate svolte all’interno della struttura erano interamente concentrate sui ragazzi e non sul personale. Giornalmente Mi relazionavo con ognuno di loro in modo differente, in maniera tale da comprendere quali fossero le loro abilità se pur minime. Insieme svolgevamo diverse attività: dalla scrittura del proprio nome, a lavori di gruppo di pittura o canto. A distanza di anni posso dire di aver seminato bene, perchè ancora oggi molti di loro, insieme alle loro famiglie, mi chiamano per qualsiasi problema o semplicemente per salutami. Questa esperienza ha generato in me un cambiamento forte e mi ha insegnato ad andare sempre oltre, guardare avanti, non fermarmi alla superficie, ma guardare la profondità della persona umana.