A ruota libera

Ritorno a pescare...

Ritorno a pescare...

Walter Arnoldo

04/10/2012



Volevo intitolare questo racconto “Ritorno alla vita” e sarebbe stata un po’ la stessa cosa, come un sinonimo, di quello che invece ho poi scelto.

Il 2010 sta finendo, mentre scorrono nella mia mente i pensieri che vorrebbero fermare sulla carta ciò che di positivo rimane, di un’altra stagione, di un altro anno che ci stiamo per lasciare alle spalle. E’ stato un periodo particolare, per quel che mi riguarda, quello che sta per finire, segnato da una malattia che ha stravolto abitudini, dal lavoro alle passioni (compresa ovviamente anche la pesca!) cambiandomi nel profondo e lasciando tracce importanti e per tanti versi, indelebili.

E’ la seconda volta, nella mia vita, che mi sono trovato ad affrontare un tumore... Quando i medici ti dicono che hai il cancro, è una mazzata tremenda, ma quando ti sparano che hai una recidiva dello stesso male che ti aveva colpito qualche anno prima e dal quale eri perfettamente guarito, forse è ancora peggio. Probabilmente perché sai già a cosa vai incontro, cosa ti aspetta, e poi perché ti fai mille domande, senza mai riuscire a trovare una risposta logica, naturale, soddisfacente.

Oggi che inizio a star bene, che se mi specchio finalmente inizio a riconoscere il mio viso, i miei capelli appena rispuntati, magari grigi come mi avevano lasciato, ma pur sempre capelli (e poi il "brizzolato" va di moda), ho l’impressione di essere nato un’altra volta...

Ti chiedi come hai fatto a superare quello che hai vissuto qualche mese prima, fra chemioterapia, trapianti, farmaci, malesseri indescrivibili e scopri che non potrai mai sdebitarti affettivamente con tutto ciò che ti hanno regalato i tuoi amici, la tua famiglia, tua figlia... Ma l’aiuto più grande nasce soprattutto dentro se stessi, con la voglia di non mollare, di non lasciarla vinta a quel male che trovi così ingiusto portarti dentro. E questa forza che assolutamente non nasce dentro di te da un giorno all’altro, ma matura pian piano e che forse fa proprio parte della sofferenza, di un percorso necessario a guarire, viene anche dalle aspettative che crei nel tuo immaginario, in quello che progetti per il tuo futuro, in quello che sogni, in quello che vorresti fare, in quello che non vorresti lasciare...

Sognavo anche di pescare, dal mio letto di ospedale...

Ho dovuto abbandonarla per mesi, la mia pesca, i miei fiumi, i torrentelli pieni di fario, il lago sotto casa, amato alla stregua di un essere umano.

Ma ho comprato una barca, semplicemente usando il computer, nei mesi più bui e tante esche. E non vedevo l’ora di andarli a provare, quegli artificiali e di mettere in acqua la barca tanto desiderata. Insomma no ho mai smesso di credere che sarei guarito.

Ecco perché in questo fine settimana di novembre, la prima uscita in barca a pesca, sul lago di Caldonazzo, bacino conosciuto come le proprie tasche, assume un significato tutto particolare, unico, magico e mi auguro comunque irripetibile.

E’ come se fosse il varo di una nuova vita... Torno a pescare nei miei posti, nelle anse nascoste del lago. Mi sembra di riabbracciare un vecchio amico, perso di vista per un po’, ma che quando lo rivedi, è come se vi foste lasciati la sera prima.

La barca è una vecchia Canadian, ma perfettamente funzionante. Qualche giorno prima del varo tanto atteso, ho indetto un “concorso di idee” fra gli amici pescatori, per il nome da dare alla nostra bagnarola d’alluminio. Vince Manfred: il natante da pesca verrà battezzato con l’altisonante nome di “Rosy Bindi”. Come la parlamentare del PD, è vecchiotta, bruttina (per dirla con Berlusconi...), ma terribilmente efficace e produttiva! (O almeno me lo auguro!).

Il giorno dell’abbraccio con il “mio” lago, non c’è il sole.

Non è freddo, ma un muro di nuvole basse, cupe, filtra i raggi del sole, impedendo loro di raggiungerci e di intiepidire l’aria. E’ strana la sensazione di tornare a pescare su un lago che adori e che hai dovuto lasciare per mesi. Dev’essere più o meno come quello che prova un calciatore che torna a calcare i campi di calcio, dopo un grave infortunio che l’ha tenuto lontano dalla mischia per troppo tempo.

Siamo in tre, testimoni del grande giorno: mi accompagnano Gigi, comproprietario della “Rosy Bindi” e Stefano, collega di Gigi, da poco folgorato dalla passione per la pesca, anche se nel suo Dna famigliare, pare che canne e lenze fossero presenti almeno dai tempi del nonno. Ci mettiamo un po’ di tempo, a capire come funziona il carrello (già la seconda volta l’operazione di ammaraggio risulterà molto più veloce!), ma con qualche patema d’animo, fra una bestemmia e l’altra per un dito schiacciato a causa della nostra inesperienza, la barchetta scivola in acqua “leggera” come una piuma. Non ci resta che caricare a bordo l’attrezzatura da pesca, la pesante batteria per il motore elettrico e il vecchio inseparabile Johnsonn. Anche prendere il largo, per chi ci avesse visto da riva o dalla pista ciclabile, dev’essere stato uno spasso. L’ultimo a salire, Gigi in questo caso, avrebbe dovuto dare la spinta definitiva, saltando a bordo agile come una gazzella, in equilibrio sulla prua, un piede e una gamba già in barca, l’altra sulla spiaggia, pronta a spingere. L’impegno e il gesto atletico sono totali, ma la povera barchetta, non si schioda dalla sua posizione a metà fra spiaggia e acqua. Non abbiamo calcolato che stavolta c’è anche Stefano (per la verità decisamente una buona forchetta, anche se a dieta da qualche mese, secondo le ultime indiscrezioni...), posizionato sulla panca di mezzo. Con delle pericolosissime spinte simultanee verso il largo, ritmate dal classico “op op” stile Abbagnale e l’ultimo sforzo di un provatissimo Gigi, finalmente scivoliamo, esultanti ed euforici, verso il largo. L’emozione è grande.

Ed è una sensazione unica anche ritrovarsi fra le mani le tanto amate canne da pesca: quella da casting, con l’inconfondibile mulinello rotondo della Abu, il mitico Ambassadeur, nero, per la verità un po’ impolverato dall’inutilizzo forzato. Ma basta una soffiata, una passata con la manica della giacca e il gioiellino svedese brilla come nuovo. Tolgo qualche metro di filo e rifaccio il nodo al terminale d’acciaio, prima di scegliere l’esca per i primi lanci. E’ pronta anche la canna da spinning, la solita St Croix “da barca”, compagna di tante avventure. Anche Gigi e Stefano, posizionati sulla Rosy nelle panche difronte alla mia (sono io l’addetto alla guida!), stanno armeggiando con la loro attrezzatura, concentrati soprattutto sulla scelta dell’esca per i primi attesissimi lanci. Gigi sceglie un minnow comprato in estate al mare, ma che secondo lui dovrebbe essere efficace anche per i predoni d’acqua dolce, mentre Stefano ci sorprende attaccando al filo della sua nuovissima canna, ancora con il sughero del manico ricoperto dal naylon, un cimelio del nonno: un vecchio rotante dall’ancoretta arrugginita.

Il sottoscritto opta per un pescione di gomma di quasi 20 cm, molto realistico sia nella forma, come nel movimento e nella colorazione, uno degli acquisti della convalescenza estiva.

Si commenta e si parla in continuazione fino a quando iniziano i primi lanci e la concentrazione prende il posto di tutto il resto.

E’ un piacere indescrivibile, tornare a stringere fra le mani uno strumento tanto usato e per troppo tempo forzatamente messo in disparte. Il “clack” di sgancio della bobina dell’Abu, azionato con il pollice, è come una musica. La canna che vola silenziosa ed agile dietro la schiena, per imprimere forza all’esca che in pochi secondi si libra nell’aria e dopo un volo di qualche decina di metri, con un tonfo sordo, cade precisa nell’acqua... Con quel gesto che forzatamente diventa anche un po’ simbolico, è come gettarsi alle spalle il passato e ricominciare a recuperare le cose belle che avevo dovuto abbandonare.

Riavvolgo il filo. Il mulinello gira che è un piacere. Lancio nuovamente, un po’ più lontano, un po’ più preciso. Basta un attimo a ritrovare la sicurezza di qualche mese prima. Il pesce di gomma sembra un cavedano ferito. Dico a voce alta agli amici, che se fossi un luccio, me lo mangerei subito...

Nonostante il peso notevole in barca, una leggera brezza ci fa spostare inesorabilmente dalla zona di pesca che vogliamo sondare per bene, prima di cambiare spot. Per fortuna in uno degli zaini gettati in barca, troviamo anche l’ancora.

Nulla, la prima nostra oretta di pesca, trascorre senza le grosse emozioni che ci saremmo aspettati, anche se per me tutto ha un sapore speciale. Ritiro l’ancora e ci spostiamo di qualche centinaio di metri, lì dove da anni un erbaio sul fondo, è garanzia di catture, visto l’habitat ottimale proprio per il luccio. Gigi cambia tecnica e arma la sua Lamiglas per insidiare uno dei suoi pesci preferiti, il persico reale.

Io insisto col mio “cavedano” gommoso. Cambio spesso metodo di recupero. Più lento, sul fondo, a sfiorare le alghe, o più "allegro", in superficie, imitando un pesce in agonia, che ogni tanto tenta di riguadagnare il fondo...

Finalmente alle 9 e 40 (la foto scattata col telefonino ferma quel momento fatidico), una botta inconfondibile blocca il recupero, strappandomi quasi la canna di mano. L’istinto è rimasto inalterato (ma penserò più tardi, a questa considerazione) e ferro con forza. Sì, c’è! Faccio un grido agli amici che immediatamente recuperano il loro filo e sono pronti a darmi una mano, nel caso ci fosse bisogno. L’adrenalina sale e in pochi secondi provo a pensare a quand’è stata l’ultima volta, che tale elemento chimico tanto emozionante, si era generato e mischiato ai componenti del mio sangue, scorrendomi nel corpo. Che bello, che gioia. Capisco immediatamente che si tratta di un luccio dal suo inconfondibile modo di difendersi, fatto di testate decise e ritmate, sul fondo. La Pike Time è piegata, ma mi rendo conto abbastanza nettamente che comunque non si tratta di un esemplare eccezionale, ma non importa, il ghiaccio è rotto. E’ come segnare un gol dopo mesi di astinenza. Tanti pensieri mi passano davanti agli occhi, mentre la sagoma del pesce che ancora si dibatte, comincia chiaramente a delinearsi sul fondo, sempre più vicino alla barca. Eccolo, adesso sale in superficie. E’ un bel luccio autoctono, nostrano di Caldonazzo, dalla splendida livrea marmorizzata. Mentre ricordo e descrivo la cattura, non mi viene in mente se Gigi mi ha aiutato col guadino a portarlo in barca o se ho fatto tutto da solo.

In un attimo il pesce è in barca. La soddisfazione immensa e assolutamente indimenticabile, oggi...

Passo la macchina fotografica a Gigi per la foto di rito, mi bagno le mani per non rovinare la mucosa protettiva del luccio e sono in posa, soddisfatto. Un paio di foto, scattate anche da Stefano e via, il pesce torna rapido in acqua. Purtroppo il grosso amo singolo dell’esca di gomma ha provocato uno squarcio laterale sulla bocca del luccio, ma non sembra niente di grave, vista la velocità con la quale riguadagna le profondità del lago.

Missione compiuta! In un colpo solo, abbiamo inaugurato positivamente il varo della Rosy Bindi alla sua prima uscita ufficiale e sperimentato la terrificante efficacia del pesce di gomma entrato da poco a far parte delle nostre esche in dotazione per il luccio.

Questa sarà l’unica cattura della mattinata, ma sufficiente per regalarci un’emozione particolare, soprattutto al sottoscritto.

 

Non so, non potrò probabilmente mai saperlo o quantificarlo, anche se sono convintissimo che ci sia, che c’è stato dentro di me, un qualche cosa, magari anche solo una piccola percentuale, legata all’amore per la pesca, che mi ha aiutato a vincere e a superare lo scoglio rappresentato da una malattia molto seria.

Ed è proprio per questo, che voglio dedicare il mio articolo a questa grande passione, alla natura, all’aria aperta, ai pesci, all’amicizia e per una volta tanto, a me stesso.

Ciao lago, sono tornato...

 

 

 

 

Walter Arnoldo

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