A ruota libera

SENZA CUORE, SENZA SOGNI

SENZA CUORE, SENZA SOGNI

16/10/2013





Essere mamma è un dono, un sogno, una sfida che, in modo diverso, si presenta nel cuore di ogni donna, ad un certo momento della propria vita. E accade spesso che ci si trovi ad immaginare una maternità che, forse, non è ancora in atto, ma che tuttavia fa parte della propria identità femminile. Anche Chiara ci ha provato, ed ha scritto una lettera straordinaria al bambino che spera di avere un giorno: “Io ho scelto di averti nonostante tutto. Ero molto titubante nel progettare l’arrivo di un bambino, per le mie difficoltà fisiche. Devi sapere che la tua mamma ha una disabilità: pensavo fosse fortemente rischioso gestire la gravidanza. Dalla vita, tesoro mio, ho imparato che la vita stessa è un rischio, e perciò ho deciso di rischiare anche questa volta, e di avere un figlio tutto mio per potergli regalare tutto il mio amore. Ti accompagnerò nella tua crescita, sempre e comunque, anche se in alcune fasi non sarò partecipe appieno; non potrò correre insieme a te, non potrò tenerti sul dondolo, ma posso donarti tanto amore: sarà quello che ti farà crescere bene. Sarò la persona che ti darà tutta se stessa per farti crescere come gli altri e vivere appieno la tua vita. Tu sicuramente ti domanderai: Perché proprio a me una mamma sulla sedia a rotelle? Lo so, potevi avere una mamma migliore… Ma ricorda, tesoro mio: l’essere migliore non dipende dallo stare in piedi o meno, ma da quello che una persona è capace di trasmettere”. E Chiara Ursino è capace di trasmettere davvero tanto. Esco dall’incontro con lei sentendomi particolarmente felice. È il primo maggio, un giorno di festa; ed aver trascorso un paio d’ore con Chiara ha davvero reso festosa la mia giornata.

Calabrese, ventotto anni, Chiara è venuta a Torino per subire una delle tante operazioni chirurgiche che hanno costellato la sua esistenza. La incontro nella cornice colorata e gioiosa della casa dei suoi parenti, che la ospitano per la convalescenza. È una bellissima ragazza, solare e luminosa, con un sorriso aperto ed un’affascinante vitalità. Purtroppo, la vita di Chiara è stata in parte segnata dalle conseguenze di un’asfissia neonatale che le ha procurato danni al nervo ottico (è gravemente ipovedente) ed agli arti inferiori con conseguente compromissione nella deambulazione. Una condizione di disabilità che tuttavia non le ha impedito di raggiungere traguardi prestigiosi a livello professionale e di studio, e, soprattutto, di vivere un’esistenza piena, gioiosa e realizzata.

Chiara, fra l’altro, è un’apprezzatissima blogger su diversi siti internet (“Scirocconews”, dove tiene la rubrica “Oltre lo sguardo”; “A ruota libera”, sul sito di Giovanni Certomà; il sito della sua parrocchia a Roccella Jonica, per citarne solo alcuni): scrive dell’esperienza propria e di quella di persone che incontra e conosce, con l’obiettivo anche di aiutare i suoi lettori ad abbattere le barriere culturali, ancor più perniciose di quelle architettoniche.

“Non mi sento diversa”, spiega Chiara: “Tutti siamo diversi da tutti gli altri… Io desidero aiutare chi mi legge ad andare oltre lo sguardo, come nel titolo della mia rubrica. Essere sulla sedia a rotelle è una condizione che salta all’occhio; eppure vorrei che la gente andasse oltre all’aspetto fisico. A volte avverto lo sguardo distorto della gente: eppure l’apparenza si consuma con il tempo, si deteriora, e quello che resta alla fine è l’anima”.

La realtà quotidiana di Chiara è fatta di grinta, determinazione, pazienza e voglia di vivere. Grazie ad un impegnativo percorso di riabilitazione, è riuscita a camminare con le stampelle, anche se le frequenti operazioni a cui viene sottoposta compromettono periodicamente i risultati di autonomia che aveva faticosamente raggiunto. “Nei momenti di difficoltà, tuttavia, ho sempre visto la luce”, spiega. “Forse la mia forza è stata la fede: la preghiera è la mia porta di speranza. Non dico che la malattia sia un dono: sarei ipocrita. Però è un’opportunità. Così come sono opportunità gli alti e bassi della mia condizione, la fatica dei decorsi postoperatori, in cui mi rendo conto di perdere anche i livelli base della mia autonomia. Quando poi riesco a recuperare ciò che già riuscivo a fare, comprendo che, nella mia sfortuna, non sono poi tanto sfortunata”.

Certamente, la mancanza di una completa autonomia risulta particolarmente pesante, soprattutto quando si giunge alla maturità personale e ci si scontra con la necessità di dipendere, almeno in parte, dalle altre persone: “Tuttavia”, sottolinea Chiara, “il tuo essere persona rimane, con le tue caratteristiche e il tuo modo di pensare. Se hai una mente e sai cosa vuoi, alla fine sei tu che decidi”.

Questa consapevolezza dell’importanza delle scelte personali è fondamentale per Chiara: l’abbiamo vista nella lettera al bambino che sogna di avere, e torna più volte nel nostro colloquio. È una consapevolezza che Chiara cerca di trasmettere a chiunque incontra. Il suo percorso di studio l’ha formata per lavorare come educatore professionale, un’operatrice di aiuto per gli anziani, i tossicodipendenti, le ragazze madri, le fasce sociali che sono una terra di nessuno, ai margini della società. “Forse, lo sperimentare questo tipo di lavoro in fase di formazione in qualità di tirocinante“, spiega, “mi ha permesso di capire che ognuno ha i propri problemi: ciò mi ha aiutata a capire e fronteggiare nel modo migliore anche i miei”. La sensibilità particolare e la maturità che Chiara dimostra di possedere, tuttavia, non sono state sempre riconosciute al primo colpo.

Alcune volte, addirittura, il vederla sulla sedia a rotelle ha fatto sì che venisse automaticamente “classificata” fra i destinatari di aiuto e non fra coloro che potevano provvederlo. Una delle tante scelte controcorrente di Chiara è, per esempio, quella di non indossare il camice bianco quando svolgeva la propria attività di educatrice tirocinante. “Per me, indossare il camice crea una barriera nei confronti delle persone che incontro. Se io voglio veramente aiutare una persona a cambiare, devo entrare in un rapporto empatico, avvicinarmi a questa persona. Un giorno, dovevo svolgere le ore di formazione pratica previste dal mio piano di studio presso una struttura, ed il responsabile mi ha chiesto, con uno stile paternalistico, se nella mia zona non ci fossero centri diurni semiresidenziali. Implicitamente, dava per scontato che io fossi lì in qualità di utente dei servizi… Io gli ho risposto semplicemente che in quel momento ricoprivo il ruolo di operatrice, ma che ciò non escludeva la possibilità che diventassi utente in futuro. Nessuno di noi può considerarsi immune dai rischi di disagio psicologico, interiore o sociale”.

Per Chiara, essere educatrice non è soltanto una professione, ma ha la qualità di una vera e propria vocazione. “Devi pensare sempre al bene della persona, soprattutto di chi è in difficoltà; nella struttura in cui ho svolto il tirocinio rimanevo delle ore a colloquio con le persone. Mi chiamano ancora adesso, sia loro sia i loro familiari, anche se sono passati degli anni. Ad un uomo di quarantacinque anni ho insegnato a scrivere… Era entusiasta, e mi ha detto: Allora non sono scemo! Ad altre persone mancavano le basi igieniche: lavarsi le mani, cambiarsi la biancheria… Ci sono molti modi per entrare in relazione con le persone: modi che non si imparano sui libri. A volte mi mettevo a giocare con loro: alcuni sono anagraficamente adulti, ma bisogna trasmettere loro amore come a dei bambini di tre o quattro anni. L’amore è l’unica cosa che rimane: è importante, supera tutto, per me è una terapia. Prima di ogni altro approccio, compreso quello farmacologico, bisogna metterci se stessi”.

L’approccio di Chiara alle problematiche delle persone che incontra è sempre improntato ad un’empatia profondamente sincera e positiva: “A volte, alcuni terapeuti pensano che trattare il paziente in modo aggressivo possa aiutarlo. Secondo me, quasi sempre non è così: con la durezza non fai altro che condurre l’altro a fare peggio, in una spirale di durezza. Spesso mi chiedono come io riesca ad essere come sono, sempre sorridente: io penso che anche nel dolore ci possa essere un sorriso. Nella vita ci possono essere prove molto difficili, talora distruttive, che possono consumarti se non sei pronto per affrontarle; ma da queste difficoltà si può anche rinascere. Possiamo rinascere anche mille volte, purché alla base ci sia la voglia di vivere: senza quella, anche la miglior assistenza terapeutica non ottiene risultati positivi, perché si tratta di una spinta che dobbiamo trovare interiormente”.

Chiedo a Chiara se questa sua vitalità e positività siano sempre state un tratto identificativo del suo carattere, lungo tutta un’esistenza segnata da questa disabilità che l’ha accompagnata dalla nascita, oppure se è stata una conquista progressiva, o ancora se c’è stato un momento di svolta nella sua vita. “Fin da piccola”, mi confessa, “mi sono sempre chiesta il perché. A mio vedere questo non è un rifiuto della mia condizione, anzi: per poter accettare un problema è necessario trovare una risposta a questo perché. La differenza rispetto alle persone che camminano o vedono normalmente non è obbligatoriamente una differenza in negativo. Può esserlo, ma dipende dal punto di vista: sia di chi vive la disabilità, sia degli altri. Se pensiamo che la famiglia è il primo agente di socializzazione, senza dubbio l’opinione dei membri del nucleo familiare e della società è determinante nella percezione che una persona ha di sé. I miei genitori, in questo, sono stati meravigliosi: non mi hanno mai detto nulla di negativo”.

Non sempre, tuttavia, è stato così: la storia di Chiara è purtroppo costellata di episodi di incomprensione, discriminazione e pregiudizio, talora per semplice ignoranza, talora forse anche per malafede.

In alcuni casi, con il suo tipico ottimismo, Chiara riesce a trovare degli aspetti positivi anche in vicende in cui ci sarebbe poco da applaudire. Mi racconta del medico a cui lei chiede, bambina, se guarirà, quando potrà camminare; la risposta è secca: “Questa è la tua malattia; sarà così per sempre, e la sala operatoria sarà la tua seconda stanza da letto”. Una disumanità che Chiara attribuisce anche alla mancanza di una formazione psicologica nel curriculum dei medici; eppure, anche in questo caso, pur condannando la durezza e l’insensibilità dell’interlocutore, ne ha successivamente apprezzato la franchezza. “Io voglio un rapporto molto sincero ed esplicito con i medici: non sono un pupazzo. Dietro la disabilità, o meglio, davanti ad essa, c’è una persona. Quando mi chiedono come faccio ad essere educatrice professionale essendo disabile, io rispondo che l’essere educatrice viene prima dell’essere disabile”.

Così, Chiara scopre pian piano di avere anche un’altra missione, oltre a quella di utilizzare nel quotidiano le conoscenze professionali che le provengono dai suoi studi e la carica umana che la caratterizza: cercare di abbattere quelle barriere culturali tramite la scrittura. “Ho iniziato a scrivere per caso, o, più precisamente, per un progetto di Dio: ne incontriamo tanti tutti i giorni, e dobbiamo cercare di riconoscerli per quello che sono, delle chiamate di Dio. Un giorno, tramite un social network che peraltro non utilizzo molto, vengo contattata da Giovanni Certomà, una persona che conoscevo superficialmente. Dapprincipio non gli rispondo; poi un comune amico mi spiega che avevano parlato di me e della tesi che avevo scritto per la mia laurea”. Si tratta di un lavoro di ricerca pionieristico, che studia e presenta il caso clinico di una bambina portatrice della Sindrome di Rett, patologia genetica che provoca la regressione progressiva e permanente delle abilità già acquisite rendendo gravemente disabili le persone (prevalentemente bambine) che colpisce. “Dopo qualche conversazione, Giovanni mi propone di riassumere i punti salienti della mia tesi in un articolo che potesse essere diffuso su internet attraverso il suo sito personale. All’inizio, la prospettiva mi ha spaventata: non avevo mai scritto nulla, prima di allora, a parte la tesi!”.

Da lì, tuttavia, è nata una passione: Chiara ha scritto numerosi articoli, che aiutano chi li legge a comprendere meglio le problematiche legate alla disabilità – ma non solo. “La disabilità spaventa”, sostiene Chiara. “In un Paese che si dichiara all’avanguardia, ancora oggi, nel 2013, c’è molta strada da fare. Si parla tanto di inclusione, di integrazione, ma di fatto non esistono. Lo dico mio malgrado e con molto dispiacere: sovente le persone disabili rimangono ai margini. Sembra quasi che la disabilità sia vista come una malattia contagiosa: si ha l’impressione di essere evitati per paura. È senz’altro vero che la sedia a rotelle spaventa, ed è anche un limite: ma bisogna superarlo”. Chiara mi porta un esempio molto semplice, ma assai significativo: “Quando ci si trova sulla sedia a rotelle, il proprio volto è all’altezza delle mani di chi sta in piedi. In un ambiente come quello del mio paese, diventa quasi automatico che mi accarezzino il viso, come farebbero con un cagnolino. Io capisco che nelle intenzioni di chi lo fa è un gesto di affetto, ma lo trovo molto stancante e un po’ ridicolo: non è un approccio, è un lavaggio di coscienza. Peggio ancora il pietismo del ‘poverina’, o l’idea che chi è disabile debba automaticamente essere cretino, privo di coscienza e di intelletto. Per la disabilità è difficile farsi spazio nella società: ci vuole molta grinta, anche se magari non farebbe parte del tuo carattere”.

Gli articoli di Chiara sono serviti e servono senza dubbio ai suoi lettori, ma in parte anche a lei stessa. “Ho scoperto una funzione quasi terapeutica della scrittura: ti permette di svuotarti dei tuoi pensieri, positivi e negativi. Mi è stata di grande aiuto negli ultimi quattro anni, che sono stati molto difficili”.

Anni di notevole sofferenza fisica, spesso ignorata e fraintesa dai medici, che non ne riconoscevano le cause oggettive e attribuivano il dolore avvertito da Chiara ad un’origine psicosomatica. “Dal 2009 dicevo che stavo male, ma nessuno mi credeva. A Bologna mi hanno ricoverata per una settimana, per poi dimettermi senza diagnosi o cure e consigliandomi di compiere un percorso psicologico di accettazione. Ho perso le staffe: quando un ortopedico non sa cosa fare la butta sul lato psichiatrico?”. Anni in cui un le conseguenze di un intervento “sbagliato” hanno provocato una grave sofferenza dei tessuti sottocutanei, con dolore e calcificazioni che hanno limitato ulteriormente la mobilità dell’arto. Anni che hanno minato seriamente alla serenità e messo a dura prova la resistenza di questa coraggiosa ragazza, nella speranza che l’intervento appena subito sia finalmente risolutivo.

Nonostante tutto, però, la fede di Chiara è luminosa come il suo nome: “Io non posso non credere in Dio”, afferma. “Il Signore esiste! La fede non può essere bigotta: bisogna sperimentarla, viverla, conoscerla; non si può andare a messa per tranquillizzarsi la coscienza. È da poco passata la Pasqua, il Signore è risorto. Secondo me dobbiamo farlo risorgere dentro di noi, lasciargli la possibilità di farlo, conoscerlo ed incontrarlo. E quale modo migliore per incontrarlo che la malattia? Davvero, la sofferenza è un’opportunità! E la disabilità ti arricchisce”.

Se Chiara non dicesse queste frasi straordinarie con la ridente semplicità che la caratterizza, una tale grandezza spirituale metterebbe quasi i brividi. Invece, Chiara porge la sua sapienza di vita con una disarmante gioia di vivere ed una sincerità totale. “Il sorriso, se vuoi, ti viene”, mi spiega. “Non nel senso che si tratti di qualcosa di teatrale o artificiale, bensì in quanto dipende dalla volontà personale e dalla voglia di vivere. Mi ha anche aiutata tantissimo l’autoironia. Questo momento di convalescenza che sto vivendo potrebbe rappresentare una fase di sgomento, di fatica: eppure un lato positivo c’è sempre… e, se non c’è, te lo crei e lo trovi! Il valore della vita è tanto, tantissimo: è questo che vorrei trasmettere tutti i giorni”.

Questa consapevolezza proviene a Chiara da una fede robusta e vissuta quotidianamente: “Il Signore c’è davvero, e ha deciso che nonostante tutto io debba vivere per comunicare tante cose. Attraverso la sofferenza, secondo me, si torna all’essenziale. Molte delle cose che ci circondano non sono così importanti: il vestire, il presentarsi in un certo modo… Eppure, anche se sei ricco o hai molti titoli di studio, se non hai un cuore che batte sei molto povero”.

Ha ragione, Chiara, ha pienamente ragione. Ed è proprio l’incontro con una persona come lei, il cui cuore batte davvero nel modo giusto, a lasciare una scia profumata di felicità nella vita di coloro che hanno avuto la fortuna di conoscerla. 

Chiara Bertoglio - "La voce del popolo"

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