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Shoah, uno sterminio ragionato

ph Domenico Scali

17/02/2021


 

Shoah, “tempesta devastante”.

Era il 1934 e Adolf Hitler era da poco giunto al potere. Quello che sarebbe diventato un dittatore sanguinario, attribuiva l’infelicissima condizione economica in cui si trovava la Germania dopo aver perso la Prima Guerra Mondiale, agli Ebrei. Secondo Hitler, esistevano popoli dominatori e popoli destinati a essere schiavi. Il popolo tedesco apparteneva ad una razza dominatrice, quella “ariana”. Un anno dopo, nel 1935 fecero la loro comparsa le leggi razziali di Norimberga, che discriminavano il popolo ebraico, separandolo dai cittadini tedeschi.

 

Fu così che la vita di ogni cittadino ebreo venne scombussolata all’improvviso. Ne è un esempio, Arturo Finzi, ragazzo ebreo, che una mattina si presentò a scuola e scoprì di essere ebreo, quando il bidello gli indicò di sedersi in un banco lontano dagli altri; scoprì di essere ebreo quando il direttore disse ai suoi compagni di non rivolgergli più la parola; scoprì di essere ebreo quando tutti cominciarono a guardarlo con disprezzo, come se si fosse macchiato di chissà quale grave colpa. Tremava, per la prima volta si sentiva estraneo e non capiva cosa stesse succedendo. Fino al giorno prima, giochi felice con gli altri bambini, vivi una vita normale, semplice; poi ti ritrovi improvvisamente catapultato in un luogo sconosciuto e hai solamente l’immagine di camicie a righe che ti passano davanti. Ti chiedi ogni giorno come sia potuto succedere e quando finirà o se finirà mai.

La tragedia della Shoah però, non coinvolse solo gli Ebrei, ma anche avversari politici, disabili, zingari e omosessuali, testimoni di geova. Venivano tutti ammassati nei treni e trattati come se fossero animali, per poi essere portati nei campi di concentramento. Uno dei più famosi è Auschwitz-Birkenau, in cui sono stati rinchiusi Primo Levi, Liliana Segre e Sami Modiano, uno dei pochissimi testimoni ancora in vita. Grazie ai loro racconti, oggi sappiamo parte della verità, ma raccontare è diverso dal viverle in prima persona.

I prigionieri arrivavano nei campi di concentramento in treno, stipati in carri bestiame o a piedi, costretti a fare lunghe marce, e qualcuno moriva già prima dell’arrivo. A Mathausen, un altro campo di concentramento, quando arrivavano i nuovi prigionieri, li lasciavano fuori, a meno dieci gradi, nudi e li bagnavano, sparando con l’idrante acqua gelata: i “Bagni della Morte”. La mattina seguente venivano ritrovati per terra accucciati, oppure anche in piedi come delle statue di ghiaccio. Nel campo di concentramento di Auschiwitz, quando nasceva un bambino, veniva affogato in un barile pieno d’acqua di fronte alla madre, oppure nelle fucilazioni di massa, i neonati venivano spesso lanciati in aria e usati come bersaglio: “Le loro carni sono troppo tenere, non sono in grado di fermare la pallottola”. Per questo pensavano fosse meglio lanciarli in aria e sparargli. Il campo di concentramento di Auschwitz, inoltre, era particolarmente conosciuto per il suo dottore, Josef Mengele, noto anche come “L’angelo della morte”. Era interessato in modo particolare ai bambini gemelli omozigoti che, con i suoi esperimenti, uccideva, iniettando nei loro occhi il metilene blu per farli diventare azzurri come quelli della razza ariana. I bambini urlavano dal dolore e diventavano ciechi e quando alla fine, stremati, si addormentavano, lui li soffocava nel sonno. Per i più grandi invece, che magari non si erano tolti abbastanza velocemente il berretto su richiesta o lo avevano fatto cadere per terra, prendevano la testa e la spingevano dentro un secchio pieno d’acqua fino ad affogarli, “questo è buono, perché fa risparmiare anche i proiettili”, è così che dicevano. Prima delle camere a gas era molto utilizzata la tecnica della “Finta raccolta dei lamponi”. Dicevano ai detenuti di uscire e successivamente davano loro un cestino, poi ad un certo punto gli veniva detto: “Andate a raccogliere i lamponi” e appena questi si giravano li sparavano. L’idea era: “Li puniamo per la tentata fuga”. È così che si divertivano i nazisti. Nei campi di concentramento si poteva morire di fame, il regime alimentare infatti, era appositamente studiato per essere insufficiente. Si poteva morire anche per dissanguamento, infatti furono diverse centinaia i prigionieri che morirono dissanguati dai prelievi a cui i nazisti li sottoponevano, inviando poi quel sangue per trasfusione ai soldati tedeschi feriti in guerra. Poi, con le camere a gas, i nazisti si accorsero che potevano fare prima e risparmiare tempo. La scusa con cui convincevano i prigionieri era quello di andare a fare la doccia. Una volta rinchiusi nelle “docce”, calavano dentro dei barattoli di Zyklon B, il nome commerciale di un gas cianidrico. Erano capsule di colore azzurrino che a contatto dell’aria si disperdevano e diventavano aeriformi e determinavano la morte per asfissia. Questa morte però giungeva lentamente e quando le SS non sentivano più grida si mettevano le maschere antigas ed entravano, portando fuori i corpi per prendere i loro denti d’oro, ma anche i capelli che servivano per l’imbottitura degli stivali dell’aeronautica tedesca. I sopravvissuti di Mathausen testimoniano che, durante i vari processi, sentivano dalle loro celle grida strazianti provenienti dal sotterraneo in concomitanza con il rumore delle saracinesche dei forni che si aprivano e si chiudevano. Molte persone venivano gettate nei forni ancora vive. I prigionieri venivano uccisi, anche attraverso l’iniezione a base di fenolo che veniva effettuata nella latrina del blocco di Gusen. La vittima veniva fatta sedere e gli venivano coperti gli occhi, l’avambraccio sinistro veniva tenuto fermo da un inserviente alle sue spalle, mentre il medico effettuava l’iniezione con una siringa munita di un ago molto lungo, e nei pochi secondi prima che il veleno facesse effetto, la vittima veniva fatta correre. Veniva letteralmente trascinata dall’inserviente fino al mucchio degli altri cadaveri. In questo modo i nazisti si risparmiavano anche la fatica di trascinare il corpo, perché era il morto stesso che veniva fatto correre pochi secondi prima della sua morte. Nei campi di concentramento  si poteva morire anche gettati da una rupe, da quella che i nazisti chiamavano in maniera spregiativa “La Parete dei Paracadutisti”, dalla quale si gettavano persone vive. Alcuni prigionieri si gettavano loro stessi prendendo la rincorsa, per disperazione, altri si suicidavano correndo e gettandosi verso il reticolato di filo spinato, “perché tanto era inutile continuare a vivere”. Sono queste, le parole di Sami Modiano, uno dei pochi ragazzi italiani sopravvissuti al campo di concentramento di Auschwitz. Arrivato al campo, Sami aveva solo 14 anni e riuscì a restare insieme al padre. Nei mesi successivi però, perse la sorella Lucia e anche il padre stesso, che una volta appresa la morte della figlia, si consegnò volontariamente in infermeria ben sapendo quale fine gli venisse riservata. “Non c’era una cura per un malato ebreo, c’era il foglio di via, le camere a gas.” Sono queste le parole di Sami Modiano.

 

Ancora oggi, se dovessi dare una mia opinione riguardo a questo tema, non saprei di preciso cosa dire. A volte mi sembra davvero assurdo che l’uomo, in passato sia stato capace di sfruttare la sua intelligenza dando sfogo alla parte peggiore di sé. Il progetto di sterminio nazista ha portato alla morte circa 15/20 milioni di persone, non solo ebree, e credo che a questo punto, tutti penserebbero che si sia trattato di un progetto folle. Eppure Liliana Segre, un’altra delle poche testimoni italiane sopravvissute ed ancora in vita, al campo di concentramento di Auschwitz, scrive “Follia perché non lo fu affatto”. È proprio con queste parole che la Segre descrive il progetto di sterminio nazista. Chi è folle, infatti non si rende conto delle azioni che compie e il modo in cui lo fa, i nazisti invece, avevano organizzato questo progetto fin dall’inizio, in una maniera meticolosa. Il loro obiettivo era quello di sterminare le razze inferiori e tutti gli ebrei, fino a far prevalere l’unica razza, degna di esistere, quella “ariana”.

 Dividere le persone in razze è un’ideologia completamente sbagliata. Tutti noi apparteniamo ad un’unica razza, quella dell’Homo Sapiens e le differenze fisiche sono dovute principalmente dall’ambiente e dal luogo in cui ognuno di noi è cresciuto. Ancora adesso, quando immagino tutto quello che hanno subito donne, uomini e bambini innocenti in quei campi di concentramento, mi chiedo sempre perché, perché arrivare a tanto? Perché arrivare a compiere azioni che mai avrei pensato che un uomo, essendo tale, fosse capace di compiere? “Ma nonostante tutto”, dicono le sorelle Bucci scambiate per gemelle e sopravvissute al campo di concentramento di Auschwitz, “la vita è bella”. E se ce lo confermano loro che hanno visto l’inferno con i propri occhi, chi siamo noi per non apprezzarla?

Elisa Hu - Classe 3^ B_2020-2021

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