02/03/2009
Io facevo parte di una famiglia numerosa, certo non ricca, ma ce la cavavamo piuttosto bene. La mia famiglia era composta dai miei 4 fratelli, da mio padre e da mia madre. Mio padre si chiamava Gianluca Rossi e lavorava come operaio in una fabbrica metallurgica, mia madre che si chiamava Rossella Beccaria ed era una casalinga, restava a casa tutto il giorno, soprattutto per curare i miei fratellini più piccoli, uno di tre e un altro di cinque anni. Erano gli anni della dittatura di Benito Mussolini. Mio padre diceva che Mussolini aiutava il popolo, ma a me non piaceva più di tanto, perché non lasciava molta libertà a noi bambini e i miei fratelli più grandi erano stati costretti ad arruolarsi. Avevo 12 anni e ogni mattina mi alzavo presto per andare a scuola, dove incontravo i miei amici; ero felice di stare in loro compagnia. Ogni mattina prima di fare lezione, dovevamo pregare per la salute del duce e i nostri insegnanti facevano di ogni piccola cosa un’occasione per parlare di Lui e di quanto fosse buono. Dopo la scuola, alcune volte anche in orario scolastico, dovevo andare insieme ai miei amici ad esercitarmi coi gruppi balilla, beh… più che esercitazioni erano allenamenti, perché ci preparavano per poi fare delle gare; io ero uno dei più bravi della mia età e gli insegnanti mi dicevano sempre: “Continua così Denis, gli italiani devono essere sempre i migliori in tutto quello che fanno”. A me non dava fastidio che mi dicessero così, più che altro mi infastidiva il modo in cui lo dicevano, come dei cagnolini, cagnolini che ubbidivano fedelmente al loro padrone, il duce. A me e ai miei amici, dopo tutti gli allenamenti, ci piaceva giocare a pallone in un terra abbandonata lontano dalla città, ci andavamo in bicicletta, ormai lo spirito competitivo era in ognuno di noi e facevamo delle gare per vedere chi arrivasse per primo. Io vincevo quasi sempre, a volte Jefri, il mio migliore amico, poi arrivava Alberto o Beto come lo chiamavamo noi; e alla fine arrivava Patrizio, che ci piaceva chiamarlo Pato, anche se a lui non piaceva quel sopranome; era sempre l’ultimo, non perché non fosse bravo, ma perché doveva sempre fare da gentiluomo e accompagnare Melissa, l’unica ragazza del nostro gruppo. Un giorno, dopo una mattinata a scuola piuttosto tesa ed allenamenti stancanti come mai prima, stavo per andare insieme ai miei amici a giocare a pallone, ma i genitori di Jefri sono arrivati e lo hanno portato via, poi sopraggiunsero anche i genitori di Melissa, Beto e Pato e inevitabilmente anche i miei, impedendoci di andare via. Arrivati a casa ho chiesto a mio padre perché non mi avesse lasciato andare insieme ai miei amici e vidi per la prima volta sulla sua faccia una preoccupazione mai vista, non aveva bisogno neanche di chinarsi, perché ero alto quasi quanto lui. Mi prese per le spalle e cercò di sorridere, ma non riuscì a nascondere la preoccupazione. Aprì la bocca lentamente come se stesse per annunciare la fine del mondo; e mi disse: “Non ti preoccupare Denis, si risolverà tutto”. E io gli chiesi: “Preoccuparmi di cosa, papà? Rispondimi!”. Cercò di evitare il mio sguardo e dopo un silenzio che mi sembrò durare un’eternità, mi disse: “Sta per arrivare un’altra guerra”. In quel momento mi sembrò che il mondo cadesse tutto ai miei piedi, non riuscivo a comprendere il senso di quelle parole, finché mio padre mi scosse e mi abbracciò dicendomi: “ Non ti preoccupare, andremmo via da qui e vedrai che pure i tuoi fratelli se la caveranno”. “ E i miei amici? Loro cosa faranno?”. Mio padre mi guardò confuso, aveva in mente troppe cose, era stressato. “Jefri, Beto e i loro genitori verranno con noi, andiamo in Svizzera, tuo zio Adolfo non avrà problemi ad ospitarci. I genitori di Melissa e Patrizio non sanno ancora cosa fare, secondo loro l’Italia, alleata con la Germania ha tantissime probabilità di vincere”. “E allora perché non rimaniamo pure noi?” chiesi confuso “Lo sai che non mi piacciono le guerre Denis, ho già perso un figlio, non ne voglio perdere altri, e poi ho già preso una decisione, quindi muoviti, dobbiamo prendere il treno, se bloccano le comunicazioni, non potremmo più andare via da questo posto”. Ormai era fatta, quando tirava in ballo la morte di mio fratello non lo si poteva smuovere. Ero confuso, non capivo nemmeno io le mie azioni, da un momento all’altro mi misi a pensare a Melissa e Pato, non sapevo se li avrei visti di nuovo, non sapevo se saremmo rimasti tutti vivi, non sapevo come stessero andando le cose; io di guerre non ne capivo niente e nella mia testa mille domande si contrapponevano alla voglia che avevo di portare la mia famiglia e tutti quelli a cui volevo bene in un posto sicuro, senza guerre se preoccupazioni, senza il timore di aver preso delle decisioni sbagliate; avevo paura che da un momento all’altro cadesse una bomba sopra le nostre teste, avevo paura, tanta paura. Stavamo camminando, dovevamo prendere un tram e poi il treno che ci avrebbe portati in Svizzera, per fortuna, a parte i miei familiari, ero insieme a Jefri e Beto; da un momento all’altro sentii che la terra tremava, intorno a noi c’erano tantissime persone che correvano di qua e di là, non sapevo cosa fosse successo, quando mi resi conto di quello che stava accadendo, ci stavano attaccando. Udii qualcuno dire: “Aerei inglesi! Ci stanno attaccando!” Cercai di trovare con lo sguardo la mia famiglia o i miei amici, nessuno, non vedevo nessuno, in quel momento iniziai ad ansimare, non sapevo cosa fare, cominciai a correre e correre, senza sapere bene cosa stessi facendo. Ad un tratto andai a sbattere contro qualcuno, “Jefri!” urlai, mi sentivo egoista al pensarlo ma mi sentivo veramente più tranquillo all’idea di non essere solo. “Denis! E gli altri? Dove sono gli altri?” chiese lui, che non era certamente meno preoccupato di me. Mi resi conto che non era solo, c’era pure Beto, mi viene in mente cosa fare. “non lo so, mi sono perso!” In quel momento un altro tonfo mosse la terra. “Beto! Tu sai che percorso dobbiamo fare!”. Beto era tranquillo come al solito, non riuscivo a comprendere il suo sorriso. “Guarda là”. In quel momento vidi i due aerei inglesi cadere in frantumi a poche centinaia di metri da noi. “Adesso credo che abbiamo più tempo, seguitemi, se vogliamo arrivare in tempo dobbiamo correre!” Mi misi subito a correre, pensando che anche i miei amici correvano velocemente, sempre stando dietro Beto che conosceva la strada; anche se l’attacco non era stato grave, non credevo che sarebbero passati più tram quindi, insieme ai miei amici, mi misi a correre a più non posso per arrivare alla stazione del treno: ci speravo tantissimo, non volevo essere lontano dalla mia famiglia. Sempre correndo, Beto si avvinò a me e mi disse: “Con i nostri genitori adesso ci sono anche Melissa e Pato, che di sicuro andranno dalla mamma di Melissa in Svizzera, li ho visti poco prima del primo attacco”. In quel momento mi rallegrai, ero proprio felice di sapere che loro si sarebbero salvati, anche se non sapevo se fosse più sicuro stare in Italia o in Svizzera, speravo solo che anche noi avessimo la stessa sorte. Adesso eravamo a poche centinaia di metri dalla stazione, quando d’un tratto vidi due persone, che saltellavano su e giù facendo dei segnali che sembravano essere diretti verso di noi. Io, Beto e Jefri ci guardammo a vicenda e il mio cuore mi spinse ad andare più veloce quando mi resi conto che quelle due persone che saltellavano come matti erano Melissa e Pato, ma il mio sorriso si spense subito quando vidi cadere un missile a poca distanza da noi; non avrebbe colpito nemmeno i miei amici, ma prese in pieno una casa e il tram che si trovava vicino saltò in aria. Mille pezzi andarono di qua e di là, vidi un pezzo d’acciaio andare verso Melissa e Pato, cercai di correre urlando “Melissa! Corri via da lì!”. Quel pezzo di tram, che dalla mia visuale sembrava una un missile gigantesco che andava a tutta velocità contro Melissa, centrò in pieno la gamba di Pato che si era buttato contro Melissa per spingerla da un’altra parte. Pato rotolò per diversi metri preso dal dolore che sentiva alla gamba, ero quasi giunto vicino al mio amico che non smetteva di sanguinare. “Pato! Pato!”. Gli urlai contro cercando di sfilarmi la maglietta per evitare che la sua gamba continuasse a sanguinare, gliela avvolsi attorno alla gamba mentre Jefri e Beto arrivavano. Il mio amico si lamentava in preda alle fitte di dolore, Melissa era ferma, sembrava terrorizzata non muoveva un solo muscolo. “Aiutatemi! Dobbiamo portarlo da un medico!”. I miei amici giunsero e Melissa mostrò un segno di vita, si avvicinò a noi e ci disse: “Dobbiamo portarlo da mio padre, lui è un medico e lo potrà curare sul treno! ma dobbiamo ritornare subito perché il treno sta per partire e le nostre famiglie sono già salite”. Iniziai a correre insieme a Jefri, cercando sempre di non far male a Pato, mentre stavamo arrivando in stazione, vidi il treno già pronto per partire e urlai contro Beto e Melissa: “Presto! Fermate il treno o Pato non se la caverà!” Iniziarono a correre, io ormai stavo svenendo dalla stanchezza, Beto e Melissa urlarono e urlarono, alla fine i miei occhi iniziarono a chiudersi, vidi il treno fermarsi, speravo di non essere in preda alle allucinazioni, non riuscii più a camminare e tutto divenne nero. Svegliatomi vidi mio padre e Jefri accanto, mi guardai intorno, c’erano tutti: Melissa, Jefri, Beto, i miei genitori e quelli dei miei amici; c’era pure Pato, in quel momento mi svegliai del tutto, mi resi conto di essere sul treno e mi avvicinai a Pato. No! non poteva essere, Pato non poteva essere morto, guardai mio padre, lui notò la espressione sul mio volto e quando si rese conto a cosa mi riferissi, reagì di sorpresa, mi abbracciò e mi disse: “Non ti preoccupare, Pato sta solo dormendo, appena arriviamo lo portiamo in ospedale, credo proprio che se la caverà, lo sai che hai russato per ben otto ore? Sei proprio una bestia, tu sei l’unico che può dormire durante una guerra! Tra due ore arriveremo in Svizzera, la prima cosa che faremo è portare Pato in ospedale” Le pulsazioni del mio cuore divennero di nuovo regolari, mi avvicinai a Melissa e Jefri, che erano gli unici svegli, gli altri stavano dormendo, ovviamente non ero l’unico ad essere stanco “Ma qualcuno vuole spiegarmi cos’è successo? Perché te e Pato non eravate con gli altri? E come abbiamo fatto a salire sul treno?” In quel momento fu Melissa a parlare, ancora in stato di trance. “Noi… siamo venuti a cercarvi quando siete spariti, e…” si vedeva lontano un miglio quanta fatica facesse Melissa alla vista del sangue, per questo non le avevo chiesto niente mentre correvamo “…non vi abbiamo trovati, stavamo ritornando e vi abbiamo visti, tuo padre voleva ritornare indietro per cercarvi ma noi lo abbiamo convinto di no, gli abbiamo detto che saremmo andati noi, poi non vi trovavamo e il treno partiva, quindi vi abbiamo visti e sai cos’è successo…” Iniziavo a capire anche se le sue frasi erano disordinate. “Ma quando sono, ehmm, quando sono svenuto come avete fermato il treno? Pato non si è fatto male?” Stavolta parlò Jefri : “Beh no, dopo aver fermato il treno Beto ha preso il tuo posto e abbiamo tenuto Pato insieme; sai, Melissa e Beto urlavano come dei matti, se non li sentivano allora erano proprio scemi e ce l’abbiamo fatta per poco, un minuto più tardi e non ce l’avremmo fatta, non so cosa sia successo, forse hanno chiuso le frontiere o qualcosa del genere, sai che io non me ne intendo” Sorrisi, mi piaceva parlare con Jefri, lui mi tirava su il morale qualunque cosa dicesse. “Beh comunque, sai che pesi proprio un sacco? Va bene far salire Pato, ma se ti ci metti pure te poi…” ci mettemmo a ridere, mi era sembrata esser trascorsa un’eternità da quando lo avevo fatto per l’ultima volta. Le due ore passarono in fretta, giunti in Svizzera, portammo subito in ospedale Pato, quando si svegliò parlò subito con me “Ciao… ti devo dire una cosa” Le sue parole mi sorpresero non avevo la minima idea di cosa mi stesse per dire. “Beh ti dovevo dire solo… che sei proprio testardo! Mi investe un pezzo d’acciaio e tu mi chiami comunque Pato! Mi chiamo Patrizio quando ti entra in testa!” Mi misi a ridere, lui mi fece il broncio ma iniziammo a ridere insieme. Era stata proprio un’avventura, non avevo idea di cosa mi sarebbe toccato in Svizzera, ma ero felice, ero felice di essere insieme ai miei parenti, ai miei amici.